Una coppia gay racconta la sua storia. Ma il fenomeno riguarda soprattutto gli etero. Un affare da 3 miliardi l’anno: secondo alcune stime, due italiani ogni settimana nascono così
Di che cosa parliamo quando diciamo, sbrigativamente, «utero in affitto»? Di quale giro d’affari, di quali sofferenze, di quale modello genitoriale? E, soprattutto, è ancora possibile immaginare di fermare un processo globale che non solo è pienamente in atto, ma che, sommandosi alla procreazione medicalmente assistita, riguarda già milioni di persone, compresi - secondo stime attendibili - circa cento bambini italiani ogni anno con la sola gestazione per altri?
GESTAZIONE PER ALTRI
«Spero che tutto si risolva. E che Dio offra la capacità di amare a queste persone piene di dubbi». Si affida all’Onnipotente la cattolica madre surrogata messicana Laura Hernandez e lo fa in un sms inviato all’avvocato Michele Falcone, fidanzato da 17 anni con l’organizzatore di eventi Adriano Visinoni.
Falcone e Visinoni convivono a Vimercate, in Brianza, e da quindici mesi sono diventati papà, anche se ufficialmente solo Michele può rivendicare il ruolo. In paese la loro famiglia è stata accolta bene, ma Laura è preoccupata perché il dibattito italiano sulla «gestazione per altri», o «utero in affitto» - come lo definisce chi trova la pratica spregevole - ha attraversato l’oceano. E lei si è spaventata. Che cosa succederà ai piccoli? Ve li porteranno via? Perché questo cardinal Bagnasco dice che «i bambini non sono un diritto»? «Noi siamo una famiglia e le famiglie si amano e si appoggiano», scrive Laura, che, stando all’analisi sgradevolmente sbrigativa del ministro Lorenzin sarebbe un’«ultraprostituta». È stata lei, infatti, a portare in grembo per nove mesi i gemelli di Michele e Adriano. Nei messaggi di questi giorni usa frasi brevi e secche e cerca un equilibrio, anche narrativo, perché sa che l’eccesso di melodramma può essere di cattivo gusto quanto la mancanza di compassione. «Chi dice che mi avete sfruttato è fuori strada. Il mio è stato solo un gesto d’amore». Davvero?
Per capire come si è arrivati a questo gesto d’amore è necessario allargare il quadro e chiedersi che cosa significhi spingere una donna - o due - a diventare madre per conto terzi. Una domanda che riceve risposte diverse a seconda dell’angolo del pianeta in cui viene posta e che alimenta un giro d’affari stimato ufficiosamente in tre miliardi di dollari l’anno, sostenuto all’80% da coppie etero e solo al 20% da coppie omo, anche se a dar retta al dibattito nostrano le percentuali sembrerebbero rovesciate.
STORIA DI MICHELE
Seduto in un bar nel centro di Milano, l’avvocato Falcone ordina un tè, mostra orgogliosamente la foto dei gemelli sul cellulare e racconta la sua storia perché ha capito da un pezzo che impegnarsi significa smettere di barare. «Da qualche anno sentivo questo bisogno di paternità. Ne ho parlato a lungo con Adriano e alla fine abbiamo scelto la gestazione per altri, perché per noi coppie gay l’adozione è preclusa. Siamo benestanti, dunque ci siamo mossi». Una ricerca cominciata su internet lo ha portato a mettersi in contatto con un istituto statunitense che opera in Messico. Lui ha messo lo sperma, soluzione che lo garantisce da qualunque contestazione legale, e una ragazza sudafricana, bianca, ha donato gli ovociti. «Ho scelto lei perché ha 28 anni e due figli. E aveva già fatto due volte un’operazione analoga. Mi ha colpito perché sul suo profilo spiegava quanto conti per lei la famiglia. Siamo ancora in contatto su Facebook. Ma soprattutto sono rimasto in contatto con Laura». Laura allora.
Trentadue anni, laureata in economia e commercio, due figli, un marito, un lavoro fisso. «I nostri bambini sono cresciuti nel suo utero. È stata un’esperienza bellissima. E la sua è stata una scelta consapevole. Un gesto d’amore, appunto. Non ho dubbi che i nostri figli da grandi andranno a trovarla in Messico». Arriva Adriano. È brizzolato, sottile, piuttosto elegante. Si siede. Guarda Michele. Danno l’impressione di amarsi bene.
I figli di Laura li considerate fratelli dei vostri gemelli? «No», dicono entrambi. Poi Michele aggiunge. «Vorrei solo che Adriano esistesse anche per la legge italiana come padre». Vi è mai venuto il dubbio di avere sfruttato le madri dei vostri piccoli? «Ci siamo fatti molte domande. Ma a questa la risposta è sempre stata: no. Ai gemelli in ogni caso racconteremo tutto». Il problema è che non esiste un «tutto» unico da raccontare.
I NUOVI GENITORI
Il dibattito sulla liceità del ricorso alla gestazione per altri è ancora acerbo, soprattutto da noi, e costringe i biologi ad affrontare con difficoltà temi filosofici, i teologi a occuparsi maldestramente di scienza e la politica a rimbalzare da una posizione all’altra a secondo delle convenienze elettorali. Peccato che sia il mondo globalizzato, e in continua evoluzione, a imporre la propria agenda.
Nel suo ufficio di Bologna, il professor Carlo Flamigni, già ordinario di ostetricia e ginecologia e membro del comitato nazionale per la bioetica, nota che «nel 2015 la prima bambina nata da una fecondazione medicalmente assistita ha compiuto 37 anni. Quella che allora era considerata un’avventura eticamente discutibile dalle scienze biologiche oggi è un’esperienza che riguarda cinque milioni di esseri umani nel mondo».
Ogni anno, attraverso un milione e mezzo di trattamenti in laboratorio nascono 350 mila bambini e il paese che ha il maggior numero di centri specializzati è l’Italia (oltre 200 contro i 107 della Francia). «Siamo dunque di fronte a un nuovo paradigma, relativo non solo alla fertilità ma anche alla genitorialità», dice Flamigni.
Un nuovo paradigma che la gestazione per altri sta visibilmente allargando, introducendo una serie di controindicazioni e problemi (pratici ed etici) che solo una scelta legislativa condivisa, per lo meno a livello europeo, sarebbe in grado di contenere. «L’idea che la maternità o la paternità siano un istinto e non un sentimento è a mio avviso sbagliata. Basti pensare che in Gran Bretagna i brefotrofi nacquero nel Settecento perché il governo si stufò di trovare bambini morti per strada e che comunque all’interno di quelle strutture la possibilità di sopravvivere era pari al 10%. I genitori non avevano grande interesse per i figli evidentemente». Cambia la morale comune. Cambiano gli strumenti scientifici. Ed è facile immaginare che nel giro di qualche decennio i rapporti sessuali avranno una funzione sostanzialmente ricreativa e non più riproduttiva. Nel frattempo le decine di migliaia di persone che decidono di ricorrere alla surrogacy sono costrette a muoversi in una vera e propria giungla.
IL MERCATO DEI CORPI
«Una percentuale significativa di turisti della fertilità viaggia perché determinate forme di lavoro riproduttivo non sono accessibili nel paese d’origine», sostengono Melinda Cooper e Catherine Waldby, docenti australiane che per prime, in uno straordinario libro intitolato Clinical Labor, hanno valutato quanto e come la bioeconomia si sia sviluppata puntando soprattutto sul corpo delle donne, producendo questo giro d’affari miliardario al quale Michele Falcone e Adriano Visinoni hanno contribuito con quarantamila dollari. Centomila in meno di quelli che avrebbero speso se Laura Hernandez fosse stata nordamericana. Negli Stati Uniti infatti, dove la logica commerciale non solo è esplicita ma anche incentivata, il ricorso alla gestazione per altri costa mediamente 140 mila dollari. Ma può raggiungere livelli molto più elevati se la donna che mette a disposizione gli ovociti è particolarmente avvenente e laureata. A quel punto è lei a fare il prezzo, consapevole di far parte di un processo di selezione che punta a raffinare la razza. È tutto chiaro. Palese. Regolato dalla legge.
Antonio Brandi, presidente dell’associazione ProVita ritiene inaccettabile la pratica della gestazione per altri, considerandola una forma pericolosa di sfruttamento del corpo delle donne e gira l’Italia non solo per dire no alle coppie gay - introducendo un discutibile nesso tra utero in affitto e coppie omo - ma anche per mostrare il documentario vincitore del primo premio al Film Festival della California. Il documentario si intitola «Eggspolitation» e racconta le vicende di una serie di ragazze americane che vendendo ovociti hanno messo a repentaglio la vita a causa di emorragie, ictus e infarti. «E’ così che le grandi aziende fanno affari milionari sulla pelle, il sangue e la vita delle donne e dei bambini». Il documentario dice il vero. Ma non dice la verità. Che è più larga e complessa di così. Nei Paesi avanzati i livelli di sicurezza per le donatrici sono sempre più elevati. E i controlli ai quali devono sottoporsi sono costanti e sofisticati. È un problema di marketing, più che di salute. Una donna che sta male non è una buona pubblicità.
Tema un po’ meno sentito nei paesi dell’Est, dove le ragazze che mettono a disposizione il proprio utero lo fanno spinte da uno stato di necessità. «Dopo la caduta del muro le donne sono state espulse dal mercato del lavoro. E per garantirsi un’esistenza dignitosa hanno dovuto affidarsi al corpo», dice Flamigni. Tre le strade per metterlo a reddito: fare le badanti, prostituirsi, affittare uova e utero. Le giovani ucraine sono particolarmente richieste perché bianche, belle, forti e con gli occhi chiari. Perfette dunque per le facoltose coppie del Nord Europa. E anche per quelle italiane. «Secondo i nostri dati ogni mese in Ucraina nascono almeno tre o quattro bambini italiani», dice l’avvocato Franco Antonio Zenna, che lavora a Barcellona per un gruppo (Subrogalia) che si occupa di fornire tutela legale a chi decida di tentare questa strada. «Sia chiaro che noi non facciamo intermediazione. Diamo però assistenza alle coppie che ce la chiedono. In Spagna arrivano ogni anno circa 700 bambini grazie alla gestazione per altri». E in Italia? «Dati ufficiali non ce ne sono, non mi meraviglierei se i numeri fossero analoghi». In realtà i numeri sono molto più bassi. Le stime parlano di cento bambini circa.
LA SOLIDARIETA’
Esistono comunque due tipologie di maternità surrogata. Quella a pagamento e quella per solidarietà, che si basa generalmente su un legame affettivo o sociale tra la gestante e la persona o la coppia di genitori a cui verrà consegnato il bambino alla nascita. È lo schema che viene utilizzato in Gran Bretagna e in Canada dove alle madri surrogate viene riconosciuto un rimborso spese legato alla perdita temporanea del lavoro e alle necessità legate alla maternità. È la terza via che cerca di trovare la mediazione tra la commercializzazione spudorata statunitense e la messa a reddito dell’utero per necessità che avviene nell’Europa dell’Est. Il mercato esiste. È quotidiano. È possibile e giusto fermarlo o è normale e inevitabile regolarlo? «A me sembra che esista “la presunzione in favore della libertà”, come sosteneva J. S. Mill», dice il dottor Flamigni, ma è proprio su questa valutazione che il Paese si è spaccato , incapace di rispondere a due domande di ordine generale. La prima: se - come sostiene Bagnasco - «i figli non sono un diritto», che cosa raccontiamo ai cinque milioni di persone nate secondo modalità «non tradizionali»? La seconda, meno diretta, ma forse più significativa: siamo in grado di mutare le opinioni ereditate dall’etica tradizionale considerando che la vita nascerà con sempre maggiore frequenza da meccanismi che nulla hanno a che vedere con l’unione fisica tra un uomo e una donna?